Relazione introduttiva al IV Congresso Nazionale

Estote Parati n. 111 – gennaio 1967
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Relazione introduttiva al IV Congresso nazionale capi e assistenti ecclesiastici (Roma, 4-6/11/1966)

 
II 16 agosto del 1964, nel cortile del Palazzo di Castelgandolfo, il Santo Padre, benedicendo – in fervore di spirito – i Rovers del III Campo Nazionale, e spronando l’ASCI a proseguire nello sforzo di apertura al mondo circostante e alla gioventù in particolare, esclamava:
« Molto bene a voi, perché così cresce la carica di amore verso il prossimo di cui volete essere generosi cultori, perché così aumenta la conoscenza delle realtà umane, perché così si innesta il vostro movimento nella solidarietà dello sforzo apostolico che la Chiesa promuove ed esige da tutti i suoi figli per il rinnovamento cristiano della società ».
Con queste auguste parole – che contengono una indicazione profonda, indubbiamente la più limpida e la meno generica che si sia mai avuta, di come la Chiesa vede l’ASCI e che forse rappresentano il fatto associativo più saliente nell’arco di tempo che va dall’ultimo Congresso a quello da poco inaugurato – io intendo introdurvi ai lavori che seguiranno.
E che c’entra?
Che c’entra col tema, con lo studio e la ricerca che faremo in questi giorni di come vede muoversi ed articolarsi l’Associazione nella società in trasformazione alla luce del Concilio?
Che c’entra, sul piano metodologico, l’augusta e paterna esortazione, col desiderio di riproporre i valori di sempre del nostro metodo con il linguaggio dell’uomo contemporaneo, per meglio testimoniarli nel contesto sociale odierno?
Che c’entra, se il Concilio è andato più oltre queste raccomandazioni, tracciando per i laici ben più impegnativi profili di responsabilità missionaria?
Ma furono quelle parole dette per prime a noi e da noi ascoltate come una rivelazione. che ci fermarono al primo grande esame di coscienza. Il Congresso è cominciato allora, con quella introduzione: noi ne conservammo gelosamente l’intuizione, il gesto e l’accento in questa custodia di pensieri e di sentimenti che è anima nostra: oggi ci mettiamo il fremito di quella emozione e, quasi a sciogliere un voto, iniziamo a rifare quella strada su cui, 50 anni orsono, il Conte Mario di Carpegna metteva lo scautismo della lontana Inghilterra nell’arco del disegno educativo della Chiesa.
Poi – accanto a questa visione dell’ASCI come la vuole la Chiesa, io colloco subito anche l’immagine dell’Associazione che in questi dieci anni si è fatta l’opinione pubblica e i pubblici poteri centrali e periferici. Fatti diversi, alcuni di natura assistenziale – riconosciuti, poi, con la concessione della medaglia al valor civile – altri di più generica cooperazione pedagogico – didattica, una certa politica di presenza – culminata poi nella nostra partecipazione in modo organico alla Protezione Civile e, contemporaneamente, il consolidarsi, da un lato di alcune -esperienze sociali negative che hanno dimostrato che il benessere della società richiede ,più che investimenti economici, una riserva di cultura e la consapevolezza sempre più diffusa che la formazione della personalità è ben più importante della stessa istruzione, hanno sollevato lo sguardo sempre meno distratto e sempre più interessato dell’opinione pubblica che oggi guarda all’ASCI come ad un vitale movimento dei nostri tempi.
Ora quanto siano fondate le aspettative che la Chiesa da un lato e la società dall’altro ci hanno accreditato, è una cosa che potremmo appurare guardando bene una terza immagine dell’ASCI, forse quella più interessante perché si tratta dell’ASCI come la vediamo noi associati e capi in servizio.
Già a casa nostra, in quella pinacoteca ideale che abbiamo nel cuore, c’è il quadro dell’ASCI alla sua ricostituzione: un’ASCI che ci appare euforica anche se vestita del saio del monaco questuante alla ricerca di aiuti e di consensi agli usci delle Prefetture e degli Episcopi; poi, quando le famose perdite ridimensionarono la sua efficienza e la sua capacità di inserzione nella ·società, il diavolo si fece pittore e l’ASCI ci apparve sfortunata, quasi iellata e le demmo il volto tormentato e lo sguardo irrequieto dell’uomo che non si dà mai per vinto ed è sempre alla ricerca di una svolta. Oggi invece possiamo portarci a casa il quadro di una associazione decisamente inquieta e nervosa: una associazione che desidera rimettere in discussione ·gran parte dei suoi problemi, pronta a ricercare nuove soluzioni, disposta a rivedere strutture e fisionomie tradizionali. Una associazione che a volte sembra collocare il moto perpetuo alla base di ogni esame di coscienza. Il bello è che tutta questa ansia di rinnovamento, di revisione, è scoppiata proprio quando ci eravamo messi un poco a posto; quando alcuni annosi problemi di casa nostra come quello economico, quello dello sviluppo, quello della considerazione della pubblica opinione e quello del riconoscimento delle autorità si erano risolti o erano avviati decisamente a soluzione. Non abbiamo trovato neppure il tempo di ringraziare Iddio per aver raggiunto certi traguardi che – sia pure sul piano organizzativo e sul piano dei valori quantitativi fino a qualche anno addietro era follia sperare che una folla di problemi metodologici ed ideologici si è presentata con l’urgenza dell’infarto.
E’ probabile che proprio quelle carenze, diciamo, costituzionali, quei problemi rimasti per lungo tempo insoluti, stimolandoci ad una continua azione di recupero e di rivalsa, ci abbiano per lungo tempo narcotizzato. Ma è più probabile ancora – e qui il quadro si trasforma in una radiografia e la tela diventa un sudario – che l’attuale inquietudine dell’ASCI sia generata dalla convinzione che questa cinquantenne Associazione è stata sempre una associazione di pionieri e se tale non resta essa è perduta.
I nostri capi – infatti – hanno oggi chiara coscienza che l’ASCI – pur nelle sue modeste dimensioni – è stata un fattore tattico, se non addirittura strategico, nella società italiana, perché a nessuno è sfuggito che lo scautismo, proprio come metodo, ha offerto molte idee e molti elementi alla scuola elementare e alla scuola media dell’obbligo; come movimento di idee si è fatto appassionato avvocato di tante cause giovanili ed accanito sostenitore di alcune cose che sono ormai entrate nel modo cli vivere della gioventù; come visione di vita ha brevettato – senza forzature e senza intenti apologetici – un impianto della personalità che solo oggi unanimemente si riconosce tra i più adatti per l’animazione dell’uomo cristiano ai fini della sua formazione personale e ai fini di fermento sociale e di civiltà. E, infine, pensiamo, sia pure con una punta di presunzione, che lo scautismo ha contribuito dalla base all’evolversi e al maturare di quelle posizioni ideologiche che si sono improvvisamente manifestate nel Concilio come nuova linea dei rapporti Chiesa – Mondo moderno. Ecco perché l’attuale inquietudine dell’Associazione, tutto sommato, può ritenersi foriera di una coscienza sociale che prima non esisteva o esisteva soltanto come fatto tecnico-pedagogico, mentre oggi è sorretta da un titolo tutto speciale e cioè la posizione anticipatoria dell’ASCI rispetto ad alcuni vitali problemi della società ed il buon servizio prestato per 50 anni alla causa dell’educazione.
Ma, accanto a questo motivo che, in fondo, può essere ritenuto per noi lusinghiero – se è vero che una associazione inquieta si fa certamente preferire ad una associazione renitente ai richiami della storia e alle leggi della sua evoluzione – un altro motivo, meno lusinghiero va affiorando ed io ho il senso di non sottovalutarlo e il dovere di non tacerlo perché questo congresso deve favorire la chiarificazione di molte idee.
Per il modo a volte poco procedurale per non dire poco fraterno con cui sono avanzate certe istanze di revisione; per la tendenza a presentare le medesime in termini solo metodologici ma che in realtà il più delle volte coinvolgono tutta una filosofia della vita; per certe mistificazioni ricorrenti che nascondono la resistenza a tradurre in pratica in periferia i contenuti di cattolicità di una linea già decisa dal Consiglio Generale, sembra che nell’ASCJ di oggi, accanto ad un’anima decisamente cattolica, possa coesistere anche una laicista.
Ora il Congresso vuol chiarire a tutti – dal vertice alla periferia – la nostra caratterizzante vocazione di forza cattolica che organizza in modo responsabile il contributo dei laici proprio come il Concilio indica al laico di fare.
Il Congresso deve allora chiarire a ciascuno dei responsabili, a ciascun capo ed assistente cioè, quali siano le rispettive funzioni alla luce delle decisioni che in questi anni il Consiglio Generale è venuto prendendo o – talora – ha dato per già assunte. Ci sono – è vero – delle cose ancora da decidere come ad es. la posizione di fronte alla politica, ma ci sono anche delle cose che devono essere solo tradotte in dottrina pratica, come ad es. la nostra posizione cii fronte alla parrocchia. E tutto questo va affrontato non dal punto di vista particolaristico dell’una o dell’altra branca ma con una visione globale e d’assieme.
Avete capito, dunque, le principali ragioni di questo Congresso e probabilmente avrete intuito il perché i temi, il programma, l’articolazione tutta del Congresso vi siano giunti con tale ritardo da rendere verosimilmente fondata l’accusa di irresponsabilità e di trascuratezza in coloro che hanno il peso della guida dell’Associazione. In verità, fin dall’ottobre dello scorso anno un altro tipo di Congresso era stato già delineato ed approntato su misura per il festival dell’Associazione al suo cinquantenario, ma, quando tutto era pronto per il lancio, ci si convinse che bisognava allestirne un altro di ben diversa impostazione, perché l’ASCI avvertiva con immediatezza e con nervosismo, specialmente dopo la conclusione del Concilio, una duplice esigenza: cioè, quella di conservare determinati valori essenziali alla sua identità e nello stesso tempo rinnovare idee e atteggiamenti per corrispondere adeguatamente alle nuove condizioni dei tempi e alle nuove situazioni di civiltà e su questa verifica non tollerava rinvii.
Il discorso che stiamo per fare, dunque, è il discorso più fresco, più attuale che poteva fare l’assise dei capi dell’ASCI in questo momento. Esso muoverà non tanto da esperienze particolari ma da quella globale che la società italiana sta vivendo, perché ogni discorso sui problemi dell’educazione, va fatta in prospettiva storica e quindi con il senso del loro divenire e dell’integrazione tra educazione e società.
I relatori che seguiranno – che io fin da ora ringrazio sentitamente – vi diranno fino a che punto la rivoluzione tecnica pesa sul divenire dell’uomo, fino a che punto il fenomeno massa Io spersonalizza e in che modo la gioventù ne è investita e a tutti noi saranno più chiari, dopo, questo esame delle varie fasi di transizione che la nostra società attraversa, i valori che danno un senso al progresso tecnologico e l’incidenza che il nostro metodo ancora conserva.
Il mio compito è invece quello di ricordarvi che soprattutto in questo discorso, più che i termini, conta la sintassi, la logica strutturale del ragionamento inteso fare. Il nostro discorso comincia con l’affermare che il mondo sta cambiando continua con l’acclarare se per effetto dei cambiamenti vi sono delle esigenze di fondo autentiche e ineludibili, prima non intraviste nel processo formativo, ma corre il rischio di restare descrittivamente statico se voi, nel lavoro di Capi Unità, non vi preoccuperete di renderlo risolutorio.
E così se all’educatore occorre conoscere con sufficiente esattezza anche il punto di vista della Chiesa, come, cioè, Essa che vive in misteriosa osmosi col proprio tempo, vede il mondo e l’uomo di oggi, la sua ragion d’essere di vivere e di operare, coerentemente non si possono poi respingere le implicanze di strutture e i modi di attuazione nella nostra concreta azione formativa. A noi interessa conoscere tutte queste cose, ma non in senso oggettivo, per avere cioè una nuova tabella di valori, come fatto culturale e sociologico, ma perché ciò comporta il corrispondente impegno dell’Associazione tutta di mettersi all’opera sul filo di quelle linee.
Come educatori e come cattolici noi non dobbiamo dimenticare che siamo la prima generazione conciliare, quella cioè più direttamente legata dal disegno divino alfa responsabilità della testimonianza dell’insegnamento della Chiesa. Ciò è tanto più ineludibile se si considera quella trasformazione di enorme portata che avviene al vertice della nostra società e che riguarda fa diversa posizione che i due tradizionali, e non più conflittanti poteri, vanno assumendo.

Lo Stato infatti oggi accresce sempre più la sua autonomia e accentua la motivazione della sua sovranità come originaria mentre la Chiesa oggi sembra disposta ad insistere meno sulla sua sovranità per farsi forza spirituale di verità, di giustizia, di libertà.
E mi sembra – per il momento – di non avere niente altro da dirvi.
Ah, no, un’altra cosa da dirvi c’è, ed è questa: vorrei pregarvi di ascoltare, non solo le relazioni, ma anche gli interventi nei successivi gruppi di studio. Ho detto ascoltare e non udire perché i fisici e i lessici dicono che ascoltando si riesce a percepire più di quello che si ode. Lasciamo stare i lessici e fermiamoci un momento su quello che dice la fisica del suono. L’acustica ci insegna che ogni suono ci sembra semplice, ma in realtà è un accordo, cioè, intorno al suono fondamentale c’è una specie di alone formato dagli armonici.
Questi suoni secondari sono come certe pennellate che, accompagnando una figura danno all’intero quadro quello speciale accento, quel colorito e quell’impronta che la distingue dagli altri dello stesso genere. Essi variano d’intensità e di numero (sono pochi nei suoni ottusi e molti invece nei suoni aspri e stridenti) e sono rilevabili da certi apparecchi. Però, facendo attenzione, anche l’orecchio riesce a percepirli. Una esperienza se ne può avere ascoltando l’ultimo tocco di una campana o il colpo di un gong.
Che cosa potremo ascoltare di più di quello che udiremo in questo Congresso, non saprei proprio dirvelo. Forse, potremo sentire – come sento io in questo momento – che relatori, congressisti e financo Capi assenti, in uno con i 400 Capi ora bloccati per l’alluvione da Pisa a Ferrara, che oggi guardano alla Domus Pacis, siamo un tutt’uno e le nostre parole e i nostri interventi, per quanto diversi, formano un meraviglioso accordo ove – come è risaputo – più note si fondono in un’armonia.
Forse, quando si alzerà a parlare quel Capo anziano che per tutta la vita si è alzato a parlare in nome del nostro ideale, capiremo che la vita che pur logora, cambia, falsifica e fa apparire inutili, artificiose e persino ripugnanti tante cose di cui abbiamo vissuto, non intacca i valori del servizio. La parola emozionata di di quel Capo Unità di uno sperduto paese di montagna ci potrà dare la sensazione del valore del tempo impiegato in una sede di periferia, ove ci si arriva a piedi, lentamente o quietamente, sentendo il tempo trascorrere tra le dita, come acqua o sabbia, per ricomporre in quelle quattro squallide mura – tutte le gioie e tutte le malinconie di una ventina di ragazzi. Forse, quando si parlerà di politica o di libertà, è probabile che sentiremo i passi di quel Vescovo che in quella piovosa mattina di fine marzo del 1928, dopo aver celebrato la S. Messa nella sua cappellina all’episcopio, chiamò il suo segretario e confidandogli che l’ASCI stava vivendo le sue ultime ore, gli domandava se non era il caso di precedere l’ordine dello scioglimento portando direttamente in Prefettura la comunicazione che era stata già disposta la chiusura delle sue Unità.
Forse quando si alzerà a parlare il Capo dell’unità che fu di Giulio UccelIini, noi sentiremo in sottofondo una melodia, come quelle che a tarda sera ci giungono da Stoccarda o da Budapest.
Ma certamente sentiremo fa presenza del Signore perché noi siamo riuniti nel Suo nome ed Egli l’ha detto: ogni qual volta gli uomini si riuniscono nel Mio Nome, Io sarò in mezzo a loro. Permettetemi allora di ringraziarLo – nel nome di tutti – per questo Suo immenso, inestimabile dono.

CARLO BRACA
Commissario Centrale Presidente

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